Il giorno 8 aprile del 1954 ricevetti un libriccino che portava un nome a me sconosciuto: Lucio Piccolo. Era contenuto in una busta gialla, purtroppo chiusa, affrancata da un bollo da 35 lire. Per ritirarla dovetti pagare 180 lire di tassa. Il libriccino, intitolato: 9 liriche, stampato da una sola parte del foglio e impresso in caratteri frusti e poco leggibili, non aveva dedica ma conteneva una lettera d’accompagnamento. Proveniva da Capo d’Orlando (Messina)». Con queste parole Eugenio Montale introduce la prima edizione di CantiBarocchi e altre liriche (Mondadori, 1956), raccontando poi di aver cominciato a leggere distrattamente, ma di essersi comunque ostinato per una sorta di sfida con sé stesso, per vedere se le 180 lire che aveva dovuto pagare per errore dell’autore valessero almeno la pena di una valutazione: «Sarà stata, in parte, ancora la suggestione della pessima veste tipografica del libro; ma il fatto è che mi colpì in queste liriche un affiato, un raptus che mi facevano pensare alle pagine migliori di Dino Campana, (…), a quei poeti gallesi — a Dylan Thomas, quando non scriveva da perfetto ubriaco». Ha inizio così la leggenda del poeta Lucio Piccolo, barone di Calanovella, e della sua famiglia, trasferitasi da Palermo sulle colline di Capo d’Orlando nel 1932, quando la madre, la duchessa Teresa Mastrogiovanni Tasca Filangieri di Cutò, tradita dal marito, il barone Giuseppe Piccolo, fuggito a Sanremo con una ballerina, aveva deciso di abbandonare la vita mondana della capitale per asserragliarsi in un eremo dove lei e i suoi figli avrebbero potuto coltivare la propria bizzarria senza contaminarsi con il mondo. I figli erano tre: Lucio, il maggiore, poeta e musicologo, Casimiro, pittore e fotografo e Agata Giovanna, botanica. Tutti e tre erano studiosi di simboli e di esoterismo, come si vede nella scelta delle piante di Agata, negli acquerelli di Casimiro e nelle poesie di Lucio. «Mobile universo di folate / di raggi, d’ore senza colore, / di perenni / transiti, di sfarzo / di nubi: un attimo ed ecco mutate / splendon le forme, ondeggian millenni»: l’ossessione onirica della natura non sfocia nel vagheggiamento di un eden perduto, ma nella lacerazione tra giorno e notte, apollineo e dionisiaco, e in un duplice sguardo, aulico e materico. La Sicilia che viene fuori è la stessa del Gattopardo e insieme il suo risvolto nero, la sua dimensione umbratile: in questi versi la decadenza umana non si fa lamento ma quiete dello spirito, esasperazione tragica e notturna di una pluralità di visioni interiori, inaccessibili alla luce del sole. Giuseppe Tomasi di Lampedusa, figlio della sorella maggiore di Teresa, trascorreva nella villa dei cugini lunghe giornate, anche di scrittura: dalla sua stanza si vede l’isola di Salina da cui prese il nome per il suo protagonista. Villa Piccolo, oggi visitabile e sede di una fondazione voluta dai fratelli alla morte di Lucio, è uno di quei luoghi dove bisogna tornare e tornare, visitarne le stanze, stupirsi degli oggetti, sostare alla penombra di persiane sempre chiuse per onorare una creatività che poteva esistere solo al riparo dalla luce accecante dell’isola. Le piante di Agata, gli acquerelli di Casimiro, le poesie di Lucio sono parte del quadro di una famiglia dentro cui magia, psicosi e fantasmi formano un’unica storia letteraria. I Piccolo si muovevano malvolentieri dal loro eremo (al contrario di Tomasi, che invece era sempre in viaggio per l’Europa) ma questo non impediva loro, in un eccellente autodidattismo, di avere una biblioteca poliglotta e intrattenere corrispondenze, reali o immaginarie, con la letteratura di tutto il mondo. Quando Montale invitò quello che credeva un giovane poeta a un importante convegno per pre-sentare la sua opera, Lucio partì da Capo d’Orlando insieme al cugino. Giorgio Bassani, che era presente e che anni dopo avrebbe voluto la pubblicazione del Gattopardo per Feltrinelli, ricorda così quella situazione: «Fu a San Pellegrino che Eugenio Montale ci dette la prima notizia dell’esistenza di un nuovo, autentico poeta: il barone Lucio Piccolo, di Capo d’Orlando (Messina). Le poesie di Piccolo (…) figurano adesso nella collana mondadoriana dello Specchio. So di non dir nulla di straordinario affermando che esse rappresentano quanto di meglio è uscito in questi ultimi anni in Italia nel campo della lirica pura». E ancora: «Lucio Piccolo risultò la vera rivelazione del convegno. Più che cinquattenne, distratto e timidissimo come un ragazzo, sorprese e incantò tutti, anziani e giovani, la sua gentilezza, il suo tratto da gran signore, la sua mancanza assoluta di istrionismo, perfino l’eleganza un po’ démodée dei suoi siciliani abiti scuri. Dalla Sicilia era venuto in treno: facendosi accompagnare da un cugino più anziano e da un servitore. Ce n’era abbastanza, se ne convenga, per eccitare una tribù di letterati in semivacanza!». E quei letterati si eccitarono davvero, ma poi, come spesso accade nel mondo editoriale, passato l’entusiasmo della novità, si dimenticarono di un poeta che non frequentava la mondanità e che tornò presto a quell’angolo di Sicilia cui rubava plumelie e giochi a nascondere, pioppi e lampi d’oro, prestigi dell’anima, lumi notturni, aurore opulente. Piccolo scrisse altre liriche e un poemetto, Le esequie della luna, continuando nello stile barocco e senza tempo dei suoi dialoghi con l’invisibile. Di lui, oltre alle introvabili poesie, oggi ci restano una brillante, colta corrispondenza con il cugino Tomasi, un bellissimo documentario di Vanni Ronsivalle, visibile sul sito della Fondazione e le testimonianze di chi lo ha conosciuto, fra cui uno scritto di Vincenzo Consolo, Il barone magico. Resta a noi soprattutto il dovere di una visita a Villa Piccolo, per andare alla radice di tanta genialità, per trovare l’origine della voce che stregò Montale: «Il suono di corno che ci giunge da Capo d’Orlando non è l’Olifante di un sopravvissuto, ma una voce che ognuno può sentire echeggiare in sé».
La Repubblica, pag. 25 del 24 Ottobre 2020